COME PESCI NEL MAR ROSSO (incipit romanzo)

 

Capitolo 1



Carlo! Vieni a giocare con noi, non stare sempre con le femmine!”

Un bambino di circa cinque anni, stava richiamando un amichetto di asilo, affinché rientrasse nel gruppo dei maschi. L’altro, quello a cui era rivolta la richiesta, si chiamava Carlo Rastelli e preferiva passare il suo tempo in compagnia di Irene Romagnoli, una coetanea, vicina di casa e, in quel momento, anche compagna di scuola materna. I due bambini, Carlo ed Irene, si conoscevano praticamente dalla nascita e non c’era stato giorno, eccetto quelli in cui erano stati malati, o erano stati portati da qualche parte dalle rispettive famiglie, che non avessero passato insieme. Si consideravano a vicenda, ognuno il migliore amico dell’altro,

Irene, vuoi che ti prendo la bambola quella grande e giochiamo a mamma e papà?”

Va bene, però io sono la mamma e tu il signore del negozio e noi veniamo a comprare le cose.”

E il papà chi è?”

Il papà non c’è, tanto quella che importa è la mamma.”

Allora vado a prenderla, prima che lo faccia un’altra bambina.”

Marika Sarti però era arrivata per prima ed aveva afferrato la grossa bambola vestita di rosa, stringendosela al petto. Carlo fece una faccia sconfitta, si voltò verso Irene che lo guardava, in attesa del giocattolo, si fece forza e chiese:

Marika, senti… mi daresti quella bambola, mi serve, l’ho promesso a Irene…”

Carlo e Irene sono fidanzati!”

All’urlo della bambina, seguito da una risata stridula, ma fortissima, fece eco un coro ripetuto degli altri bambini, che per un momento interruppero i propri giochi, per dedicarsi a quella nuova attività, che trovarono spassosa.

Carlo e Irene sono fidanzati! Carlo e Irene sono fidanzati! Carlo e Irene sono fidanzati!”

Carlo, per un momento pensò di colpire in faccia quella bambina cattiva, ma poi ebbe paura della punizione e gli tornò in mente che suo padre gli aveva sempre raccomandato di non usare mai la violenza, soprattutto con le signorine e quindi restò immobile e imbarazzato a fissarla, senza sapere come uscire dalla situazione. A toglierlo dall’impaccio, ci pensò una mano gentile, che prese la sua dolcemente e lo tirò a sé. Era Irene.

Non ti preoccupare, non ci voglio giocare più con quella bambola. Facciamo un altro gioco. E poi non è vero che siamo fidanzati!”

A Carlo quella cosa dei fidanzati non era molto chiara, ma in quell’istante pensò che, se mai un giorno fosse diventato il fidanzato di qualcuno, quel qualcuno non avrebbe potuto essere che Irene. Continuando a tenere la mano dell’amica, sorrise e si fece trascinare verso il tavolo delle costruzioni.

Con gli anni le costruzioni divennero, quaderni, zaini, diari e l’amicizia tra i due ragazzi continuò ad essere sempre forte e intensa. Le scuole elementari e le medie passarono velocemente e con una leggerezza dovuta proprio al rapporto tra i due, che li proteggeva dal resto del mondo. Erano una cosa sola, condividevano i loro spazi e i loro pensieri. Spesso si ritrovavano per passare i pomeriggi a casa della famiglia di Carlo. Il padre, l’ingegner Ettore Rastelli, era spesso assente per lavoro e la madre, la signora Margherita, era una signora milanese, costantemente ben vestita, truccata e pettinata, anche se non doveva uscire. Era sempre indaffarata sia con la gestione della casa, che con quella della sua lieve depressione; quando non aveva da sistemare qualcosa, si accomodava nel salotto, affondata su una poltrona a guardare i programmi televisivi del pomeriggio, che sembravano pensati e realizzati proprio per essere visti da persone che soffrivano degli stessi problemi di Margherita. Non si è mai capito se questo avesse dovuto servire ad alleviarne i dolori o se, invece, fossero i programmi stessi a provocarli. Carlo e Irene, invece, si chiudevano in camera del ragazzo e continuavano a vivere nella loro bolla, anche grazie alle assenze vere o virtuali degli altri abitanti della casa.

Il loro non era amore, o meglio, forse lo era, ma non era mai sbocciato in forma palese. Carlo spesso ci pensava al fatto di essere probabilmente innamorato di Irene, mentre lei da questo dubbio, non si era mai fatta sfiorare e Carlo questo lo percepiva e ricacciava indietro ogni pensiero in tal senso, rifugiandosi in un’amicizia che, magari non era, per lui, totalmente soddisfacente, ma perlomeno era sicura e quindi se la faceva andare più che bene. Di fatto, essendo entrambi figli unici erano, ognuno, il fratello e la sorella che l’altro non aveva mai avuto.

Le loro giornate si consumavano nell’ascolto della musica preferita da Irene e di conseguenza da Carlo e, soprattutto, in quella che era una passione che avevano scoperto di avere entrambi nel corso degli anni: quella del disegno. Si facevano ritratti a vicenda, copiavano dal vero i panorami che vedevano e fotografavano dalle diverse finestre della casa, facevano vignette e caricature che ritraevano le persone che conoscevano divertendosi a prenderle in giro. Purtroppo anche quei momenti, come spesso accade con le cose belle della vita, arrivarono ad una fine. Non fu una fine improvvisa. Fu un’agonia lenta e graduale, come capita con la maggior parte delle amicizie giovanili che vanno a morire, consumate dal tempo e dai cambiamenti. La prima ferita al rapporto tra i due ragazzi fu inferta al momento in cui iniziarono le scuole superiori e ci fu la scelta dell’istituto da frequentare. Per Carlo non ci furono possibilità: suo padre, l’ingegnere, aveva già programmato per suo figlio, una carriera simile alla sua, quindi avrebbe frequentato il liceo scientifico e dopo si sarebbe iscritto all’università, nella facoltà di ingegneria civile. Irene, invece, non aveva imposizioni da parte della propria famiglia, ma non avendo predisposizioni particolari, tranne quella per il disegno e non avendo mai avuto grosse pretese, o profusioni di impegno in ambito scolastico, decise di optare per un più tranquillo liceo artistico. Il fatto di frequentare due istituti diversi, non sarebbe stato un problema, tanto si sarebbero visti ancora al pomeriggio, abitando l’uno vicino all’altra; la loro amicizia non sarebbe stata scalfita da quelle poche ore di separazione, almeno secondo quello che si erano ripromessi al momento della scelta della scuola. Per un po’ fu così, infatti. Ma solo per un po’. Dapprima iniziarono a saltare alcuni pomeriggi perché uno dei due aveva da studiare, poi cominciarono le prime uscite con i rispettivi compagni a cui non si poteva dire di no, per motivi relazionali, dopodiché Irene prese a frequentare un tipo, un certo Marino Concini, che frequentava il suo stesso liceo artistico, ma due classi sopra (e forse era pure bocciato un anno!). Infine, la famiglia di Irene si trasferì fuori città, nell’hinterland, perché suo padre aveva perso il lavoro e dovettero trovarsi una sistemazione più abbordabile, almeno fino a quando, avrebbero potuto contare solo sullo stipendio della madre. Fu il colpo di grazia. Da quel momento, ci furono solo un paio di mesi di telefonate, con promesse di vedersi presto, sempre più rade e dopo neanche quelle. Carlo e Irene si erano perduti di vista e la loro amicizia era finita.



Capitolo 2



Irene Romagnoli stava tornando a casa dall’università; era al primo anno di Scienze dei Beni Culturali e non era ancora convinta di avere, per l’ennesima volta, fatto la scelta giusta. Erano almeno quattro anni che non sentiva più il suo amico d’infanzia Carlo e ci pensava molto raramente. Aveva finito con fatica le superiori, pensando anche lì di avere sbagliato scuola: pensava all’istituto d’arte come una specie di luogo frequentato da artisti che passavano le giornate a dipingere e scolpire, un po’ come una versione figurativa della School of Arts di New York nel telefilm che guardava da bambina, con tutti quei ragazzi che cantavano e ballavano continuamente. Invece al liceo artistico della sua città, si studiava e l’atmosfera era quella di ogni altra scuola “non artistica”. Alla fine, come percorso universitario, aveva scelto quello dei beni culturali, perché si immaginava il suo futuro, vedendosi interpretare la versione femminile di Indiana Jones a Pompei, ma studiare archeologia era troppo impegnativo. Però, anche in questo caso, nessuno le aveva insegnato a usare una frusta o a scansare palle di roccia rotolanti indossando un fedora sgualcito, ma l’avevano riempita di libri noiosi da studiare, esami da preparare e professori antiquati da sopportare. Erano quelli i momenti in cui, con più facilità, si trovava a pensare al piccolo Rastelli, agli anni innocenti della gioventù, in cui, con l’amico, immaginavano un mondo fantastico, ma che, nella realtà, non si era rivelato quello che sognavano. Le mancavano quelle speranze, quei desideri, quella ingenuità, quella amicizia. La vita vera faceva schifo. E ora stava anche iniziando a piovere.

La pioggia stava aumentando rapidamente di intensità, era ormai un acquazzone e Irene si stava bagnando e si stavano bagnando anche quegli inutili libri. Il viale con i giardini prospicienti alle abitazioni chiusi da cancelli, non offriva riparo; l’unica soluzione era quella di correre più velocemente possibile e raggiungere la parte del viale, oltre la rotonda, dove le villette si trasformavano in palazzine con il portone che dava sul marciapiede e con i balconi sulla strada, sotto i quali avrebbe potuto trovare riparo. Affrettò la corsa, con le gocce di pioggia, fredde che la colpivano dentro gli occhi. Arrivò alla strada da attraversare, con la vista offuscata, si asciugò gli occhi e maledisse il traffico; a Milano, non appena minacciava brutto tempo, le strade si trasformavano in caroselli di auto guidate da persone che avevano fretta: più il tempo peggiorava, più aumentavano le macchine e più aumentavano le macchine, più pressante diventava la fretta provata dai guidatori. In tutto questo, attraversare un viale in prossimità di una rotonda, per un pedone era impossibile, a meno di aspettare un cenno di consenso da parte di un semaforo che, in quel frangente, sembrava ignorare una Irene sempre più fradicia e incavolata.

Mentre la ragazza stava lì a cercare di cogliere l’attimo in cui avrebbe potuto attraversare senza essere investita da qualcuno, una automobile, di quelle col simbolo molto simile a quello della pace, ma di cui non si ricordava mai il nome, le si accostò davanti, impedendole di poter passare. Irene stava per protestare, ma il finestrino dell’auto si abbassò, non troppo a causa della pioggia, fino a svelare due occhi scuri. Forse quella persona si era fermata per lei, ma Irene non conosceva quell’auto e la cosa un po’ la spaventò, almeno fino a quando quegli occhi scuri le parlarono.

Irene? Sei proprio tu?”

La giovane rimase in silenzio, cercando di capire di chi fosse quella voce, anzi, cercando di ricordare, perché in qualche angolo della sua memoria, quel tono gentile ma austero, quella voce calda e profonda, era già registrata, ma non riusciva a mettere a fuoco a chi appartenesse. Il finestrino si abbassò ancora e gli occhi si allargarono in un volto, che invece Irene conosceva molto bene: quello di Ettore Rastelli, il padre del vecchio amico Carlo che, come il figlio, non vedeva perlomeno da quattro anni.

Signor Rastelli! Mi scusi, ma da dentro la macchina non l’avevo proprio riconosciuta!”

Dai monta su, che ti do un passaggio. Meno male che ti ho vista ferma sul marciapiede: ti stai inzuppando tutta.”

Irene, fece il giro dell’automobile, sorridendo. Finalmente le era capitato un colpo di fortuna. Aprì lo sportello del passeggero, ma tentennò un attimo prima di entrare e buttarsi sul sedile, perché non voleva bagnare tutta quella pelle probabilmente pregiata. Ettore, capì quali fossero i pensieri della ragazza.

Non ti preoccupare, sali pure. Non rovini niente: questa tappezzeria può sopportare ben altro.”

La studentessa universitaria riluttante salì sull’automobile del conoscente, che spostò un pacco di fogli sul sedile posteriore per farle posto e la accolse con un sorriso e le solite frasi di circostanza.

Mamma mia! Certo che è proprio un casino di tempo che non ci si becca! Quanti anni saranno? Cinque?”

L’esordio dell’uomo in un triste tentativo di usare un linguaggio, secondo lui, giovanile non fu dei migliori. Soprattutto perché usò dei termini che erano giovanili almeno trent’anni prima.

Forse qualcosa meno, signor Rastelli.”

Lascia stare il ‘signor’. Signor Rastelli, o ingegnere, mi ci faccio chiamare solo in ambiente lavorativo. Chiamami pure Ettore, tanto siamo entrambi persone adulte, oramai.”

Effettivamente Ettore non poté fare a meno di notare che quella che aveva davanti non era più la bambina, o la ragazzina che era cresciuta praticamente in casa sua, ma una donna. Una donna molto attraente, per giunta, e questo pensiero un po’ lo disturbò, ma un po’ gli produsse strane reazioni mentali, che durarono un attimo, e che si sforzò di scacciare quanto prima, cambiando discorso.

I tuoi come stanno? Anche loro non li ho più visti, da quando vi siete trasferiti.”

Boh… Normale. Li vedo poco anche io, mi sono trasferita in una stanzetta un po’ più vicino all’università, anche se dire vicino è un eufemismo. Oltretutto è un buco, ma almeno costa poco.”

A proposito, dove ti devo portare? Altrimenti vado a diritto e non so dove andare!”

Ah già, è vero! Ah ah ah! Fra due strade svolti a sinistra, dopo il ristorante cinese.”

Svolti?”

Eh? Ops… Svolta! Devo farci l’abitudine; dopo tanti anni che ti vedevo come un adulto, tanto più grande di me, passare a darti del tu, mi resta difficile. Ma ce la posso fare!”

Il viaggio durò non più di dieci minuti e continuò con una conversazione banale, ma divertente, composta dai consueti convenevoli, ma che erano impreziositi da uscite simpatiche e gradevoli battute da entrambe le parti. In quel poco tempo, si era creata una certa sintonia, non c’era più l’iniziale imbarazzo di due persone che non si vedevano da tempo e che fino ad allora erano separate da un muro dovuto alla differenza di età e di generazione. Dopo dieci minuti di chiacchiere e facezie, intervallate dalle indicazioni sul percorso da seguire, l’atmosfera era distesa e quasi piacevole, tanto che all’arrivo sotto il palazzo in cui Irene abitava, sia lei che Ettore erano quasi dispiaciuti che il viaggio fosse finito. Entrambi però avevano notato una cosa: né l’uno, né l’altra avevano mai spostato la conversazione su Carlo. Soprattutto Ettore trovò strano questo fatto. Gli sembrò curioso che Irene non avesse chiesto niente del vecchio amico e si rese conto che lui, invece, aveva evitato l’argomento di proposito, ma non si spiegava il perché. Più di una volta aveva pensato di inserire suo figlio nella discussione, ma c’era sempre qualcosa, nel profondo della sua mente, che lo aveva fatto recedere dall’idea. In quel momento, lì, con Irene, la presenza, seppur virtuale, di Carlo era come se gli avesse potuto dare fastidio. Chissà poi per cosa. Comunque ormai erano sotto casa della ragazza ed era rimasto tempo solo per i saluti.

Bene. Eccoci qua.”

Eh sì, ti ringrazio signor Rastelli.”

Con il tu ci siamo, ma il ‘signore’ pensavo si fosse d’accordo di lasciarlo perdere. Non sei più una bambina che parla col padre dell’amichetto: a questo punto siamo tra adulti, quindi ti ripeto: chiamami Ettore, altrimenti ti devo chiamare signorina Romagnoli!”

Va bene. Ettore.”

Ascolta, facciamo così. Io ti do il mio numero, se mi mandi un messaggio ti invio il numero di Carlo, che a mente non ricordo, e magari vi sentite. A lui farebbe piacere.”

Così dicendo, Ettore armeggiò col vano portaoggetti dell’automobile, ne tirò fuori un biglietto da visita e lo porse alla sua passeggera.

Sì, dai. Lo chiamo volentieri. Qualche giorno ci possiamo anche vedere. Anche tutti e tre, perché no?”

L’offerta da parte della ragazza di rivedere lui, oltre che suo figlio, spiazzò l’uomo, che rimase un attimo interdetto, fino a che la radio, fino ad allora in un sottofondo appena percettibile, non passò un brano che gli piaceva particolarmente e lui, in automatico, alzò il volume. Irene, incuriosita da quel gesto, voltò lo sguardo verso l’autoradio e, successivamente, guardò Ettore con una faccia quasi stupita, innescando nell’uomo un sorriso sornione. Quella di Irene era la reazione che Ettore voleva provocare. O perlomeno, a lui bastava che ci fosse una reazione qualsiasi, per poter indirizzare il discorso nella direzione che gli interessava intraprendere. C’era un argomento che desiderava affrontare, con leggerezza e senza scoprirsi troppo e lui era bravo nel portare le discussioni dove voleva.

Domani è un altro giorno. Ornella Vanoni. Gran bel pezzo e interprete straordinaria, non trovi? Ah, scusa, queste, per voi giovani, sono canzoni da vecchi. Che ci vuoi fare: io per quelli come te sono un vecchietto…”

Ma no! Non sei così vecchio. Almeno non così tanto da ascoltare questa musica qua. Probabilmente quando è uscita, non eri neanche nato.”

A ben vedere, Ettore Rastelli era il classico uomo d’affari di Milano: estremamente giovanile a dispetto dei suoi quarantasei anni. Costantemente abbronzato, palestrato, curato; elegante ma all’occorrenza sportivo, sempre con indosso abiti firmati e di foggia moderna. Sembrava più giovane della sua età, ma con il carisma dovuto ad una vita che era stata abbastanza lunga, da potere essere ritenuta interessante. Era un uomo che aveva un discreto fascino potenziale, anche se raramente gli capitava di usarlo per finalità extralavorative.

E comunque a me non dispiacciono gli uomini più maturi: mi ci trovo bene.”

Irene sfiorò con la mano la pelle del sedile del guidatore.

Soprattutto se non sembrano troppo vecchi ed hanno belle macchine.”

Il gesto e le parole della ragazza, nelle sue intenzioni dovevano essere totalmente innocenti. Una battuta simpatica rivolta a una persona che sentiva di conoscere e che doveva servire a sdrammatizzare una situazione, in cui credeva che lui si sentisse realmente in imbarazzo per la propria età. Un nuovo amico che pensava di dovere mettere a suo agio, mostrandogli di ritenerlo tutto sommato giovane, ma ovviamente l’effetto che apparve agli occhi di Ettore non fu così candido e provocò all’uomo la caduta di tutti i muri che aveva costruito fino a quel momento, per arginare il desiderio che provava nei confronti di quella donna che aveva conosciuto bambina. Si sporse verso di lei e appoggiò le labbra alle sue.

Irene non si era minimamente aspettata quel gesto e rimase spiazzata. Per un secondo restò immobile, dopodiché aprì la bocca e accolse il sapore di quell’uomo al suo interno. Si riebbe dopo pochi istanti; quella cosa era sbagliata e si ritrasse di scatto, sbattendo con la schiena contro lo sportello chiuso. Ettore era un uomo affascinante e si era abbandonata al suo carisma. Nel momento che era successo, lo aveva voluto, ne era lusingata e eccitata, però non avrebbe dovuto farlo. Non andava bene. Era il padre di Carlo, era sposato… era bello. Si sporse di nuovo in avanti e questa volta fu lei a baciare lui. Con una intensità che fece impallidire quella del bacio precedente e della maggior parte dei baci che fossero mai stati dati nel mondo, da quando era nato il concetto di voluttà. Dopo meno di un minuto, giusto in tempo per impedire che le mani di Ettore iniziassero ad esplorare il corpo che gli stava avvinghiato, Irene si staccò ancora. Guardò l’uomo che stava baciando e iniziò a fare uscire dai suoi occhi fredde lacrime che discesero il suo viso fino a bagnarle gli angoli della bocca, dando un sapore nuovo, salato, a ciò che stava vivendo. Si gettò fuori dall’automobile e chiuse forte la portiera senza dire niente, lasciando Ettore stranito e col terrore di avere commesso uno dei più tremendi errori della propria vita. Subito dopo la portiera si riaprì, Irene si riaffacciò nell’abitacolo, sussurrando un “grazie” con la voce rotta da un singhiozzo. Afferrò il biglietto da visita che era rimasto appoggiato sul cruscotto e sparì di nuovo, nascosta dalla pioggia che bagnava il vetro del finestrino, rendendo invisibile ciò che stava all’esterno, compresa una ragazza che entrava in un portone piangendo e stringendo con forza un piccolo pezzo di carta tra le mani.

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